giovedì 6 gennaio 2011

SOLIDARIETA' E RESPONSABILITA'

Solidarietà e Responsabilità. Sono queste le due categorie essenziali citate da Edgar Morin in una interessantissima intervista pubblicata su Repubblica nei giorni scorsi. Non è ovviamente l'unico aspetto interessante di questo incontro con il grande pensatore ma se se se si deve ridurre ai minimi termini quel che si porta a casa da questa vicinanza con il francese che, a mio parere, senza ribaltoni e trasformismi ideologici e mai venendo meno la sua onestà intellettuale, ha attraversato tutte le principali correnti di pensiero del Novecento, declinandole sul piano generale e particolare, nel suo privato, cioè, approdando al vero banco di prova del presente, asse fondamentale per la costruzione del futuro, che sarà ridare speranza ai giovani. Senza ideologismi, senza interessate pacche sulle spalle, senza furbizie, dicendo la verità, oggetto sempre misterioso di questi tempi, cioè che non si ha un futuro per diritto di nascita ma solo se si è in grado di costruirlo. In questa intervista ci sono alcuni dei punti di riforimento culturali e politici nei quali mi riconosco meglio nel mio agire personale e di volontariato politico locale. Per questo mi permetto di annotarlo nella mia bacheca, anticipando queste premesse a chi capitasse di navigare in questo blog. Grazie ad Anais Ginori per questa ottima pagina di giornalismo, nella migliore tradizione della professione, quando ci si ricorda che buon giornalismo è agire con spirito di servizio, nel rispetto del lettore/utilizzatore, contribuendo ad aggiungere nuove conoscenze a quelle che c'erano prima di aver letto, visto o ascoltato, superando la prigione nella quale il giornalismo tifoso di questi tempi si è rinchiuso, a livello generale, privilegiando l'ossequio, l'ammiccamento o la partigianeria senza veli per il potente di turno, relegando nel sottoscala l'interesse generale delle persone e della sociatà o comunità.mb


Anais Ginori
Edgar Morin

[Repubblica - 02 gennaio 2011]
«Se fossi guidato solo dal lume della ragione, dovrei dire che il mondo va verso la catastrofe, che siamo sull'orlo dell'abisso. Tutti gli elementi che abbiamo sotto gli occhi ci prospettano scenari apocalittici. Ma nella storia dell'umanità esiste l'imprevisto, quel fatto inatteso che cambia il corso delle cose. Ecco perché, in fondo, sono ottimista».
Anche quando si tratta di guardare al lungo periodo, Edgar Morin non rinuncia al suo famoso "pensiero complesso" che teorizza ormai da quarant'anni. Tesi, antitesi, sintesi. Il suo marchio di fabbrica. Unire gli opposti, abbracciare saperi diversi, come ha spiegato nei sei volumi della Méthode, l'opera enciclopedica scritta tra il 1967 e il 2006, che gli è valsa il soprannome di «Diderot del Novecento».
Morin è un pensatore poliedrico, culturalmente onnivoro. Filosofo, sociologo, antropologo, una bibliografia fatta di oltre cinquanta titoli, saggi che spaziano dall'elaborazione del lutto ai nuovi miti dello spettacolo, dall'ecologia alla riforma del welfare. Tra pochi mesi compirà novant'anni. Le Monde gli ha dedicato un numero speciale, secondo il Nouvel Observateur è uno dei «giganti del pensiero» del secolo trascorso.
Davanti al computer, nello studiolo del suo appartamento di rue Saint-Claude, sopra alle vecchie tipografie del Marais, lavora al nuovo libro. Sarà dedicato alla speranza. «Sì, vorrei restituirla ai giovani che sentono di aver perso il futuro. Noi avevamo la fede nel progresso, ci siamo illusi prima con il comunismo e poi con il consumismo, la democrazia sembrava ancora la formula perfetta di convivenza. Ora quest'orizzonte è stato spazzato via».
Non farebbe mai a cambio con un ventenne di oggi, anche se cammina lentamente nella casa vuota, aiutandosi con un bastone. Due anni fa è morta la sua terza moglie, Edwige Lannegrace, alla quale ha dedicato un libro, Edwige l'inséparable. Con la modella e attrice canadese Johanne Harelle, conosciuta negli Usa, aveva trascorso i ruggenti anni Settanta viaggiando in America Latina. Gran seduttore, racconta di aver «bevuto la vita». Non si è fatto mancare niente.
Nato nel 1921, nella comunità ebrea sefardita del quartiere di Menilmontant, ha rischiato di morire durante le fasi del parto, insieme alla madre Luna, gravemente malata di cuore. «I medici le avevano consigliato di non avere figli, lei aveva nascosto la sua patologia anche a mio padre Vidal». La madre sopravvive per miracolo, accudisce il figlio unico come un piccolo principe, ma nove anni dopo è vittima di un infarto. «Quella morte è stata la mia Hiroshima» ricorda. Non a caso il suo primo libro di antropologia, pubblicato nel 1951, s'intitola L'homme et la mort, e analizza tra l'altro il concetto di "resilienza", la capacità di resistere agli urti. Durante l'occupazione nazista, trova la sua seconda famiglia. Entra nelle forze combattenti della Resistenza, nella fazione guidata da François Mitterrand. È così che Edgar Nahoum per l'anagrafe diventa Edgar Morin, nome di battaglia che poi terrà anche dopo la guerra. Impara a nascondersi, a comprare le soffiate, ad anticipare i movimenti della polizia. Un giorno sta raggiungendo Lione, per un appuntamento. Ha come un presentimento, decide di non andare. L'amico che l'aspetta viene catturato, torturato e ucciso. In clandestinità, conosce Violette Chapellaubeau, prima moglie e madre delle sue figlie Irène e Véronique. Il giorno della Liberazione entra a Parigi a bordo di un'automobile militare, sventolando la bandiera insieme all'amica scrittrice Marguerite Duras. Subito decide di partire per Baden-Baden.
Nel 1946, due anni prima del film di Roberto Rossellini, scrive L'Anno Zero della Germania, un racconto sul paese in macerie, un tentativo di capire come la nazione di Goethe e di Beethoven abbia potuto provocare la barbarie del nazismo. Fino a trent'anni ha creduto nel Sol dell'Avvenire. «Sono stato un comunista di guerra, perché ho dato la priorità alla lotta contro il nazismo, trascurando perciò i difetti dello stalinismo. Ma in tempo di pace, appena sono incominciati i processi e le epurazioni, ho stracciato la mia tessera».
Nel 1951 viene definitivamente espulso dalla dirigenza del Pcf per aver criticato in un articolo il Gran Timoniere Mao Tse Tung. «Il partito era come una chiesa, un ambiente sacro - ricorda - qualcosa di inimmaginabile per i giovani di oggi». Morin scrive in quegli anni Autocritique, memorie di un ex comunista, genere destinato a fare proseliti, in Francia e non solo. Oggi si considera « droitier gauchiste ». «A destra, perché secondo la tradizione rivoluzionaria voglio difendere le libertà, e a sinistra perché penso che ci sia bisogno di radicalità». Di Karl Marx, al quale ha dedicato un piccolo saggio l'anno scorso, dice che «è stato un formidabile profeta della globalizzazione capitalista, ma non ha visto che l'homo faber, l'uomo produttore, era anche l'homo economicus, e che l'homo sapiens era anche l'homo demens, la follia umana che si manifesta in tutta la storia dell'umanità».
Nel 2008 Nicolas Sarkozy citò la «politica di civilizzazione» teorizzata da Morin in un suo discorso. Lui fece sapere di non aver gradito. «Dubito che il presidente conosca i miei lavori e il significato reale di quest'espressione» ripete adesso, con un moto di fastidio. Per Morin la «politica di civilizzazione» consiste nel ritorno della supremazia della politica sull'economia, del pubblico sul privato. «I partiti di sinistra hanno accettato supinamente il liberalismo senza capire che bisognava prima discutere di regole e salvaguardia dei diritti. Con la globalizzazione economica abbiamo avuto cose positive, come la circolazione delle persone e delle idee, ma abbiamo integrato anche i ritmi di lavoro della Cina». Nel suo album personale conserva foto con molti dei leader della sinistra francese, da Maurice Thorez a Mitterrand, con i quali ha spesso polemizzato. Eppure ogni volta che la gauche è in difficoltà, Edgar Morin viene consultato come un oracolo. Tutti, anche i suoi nemici, gli riconoscono una grande capacità di fiutare l'esprit du temps, lo spirito dell'epoca, titolo di un suo studio del 1962.
Ha battezzato negli anni Sessanta la generazione «yé yé», i ragazzi dipendenti dal consumismo, nel 1993 ha pubblicato un pamphlet sulla «Terra-Patria» prima che l'ambientalismo diventasse una moda, ha previsto il ritorno dei nazionalismi e della xenofobia in Europa. «Sono rimasto scioccato nel vedere quello che la Francia ha fatto ai rom, un popolo perseguitato da secoli, mandato nei campi di concentramento dai nazisti».
Morin non teme di trovarsi su posizioni politicamente scomode. Si è schierato a fianco dei palestinesi durante l'Intifada, è andato a parlare all'università di Sarajevo sotto le bombe.
Mentre parla, continua a consultare le email sul computer. «Sono già dipendente da questo aggeggio» scherza. Viaggia ancora per conferenze, soprattutto in Brasile dove ci sono diversi corsi dedicati al suo lavoro, ha appena ricevuto un invito per andare in Cina. Il suo sogno, oggi, sarebbe veder nascere una nuova stagione della sinistra. «Non ci sono segreti. Le due parole che dobbiamo riscoprire sono solidarietà e responsabilità. In senso etico ma anche politico. L'idea di un unico partito di sinistra mi sembra destinata a fallire perché contiene forze che si sono sempre combattute e che difficilmente possono superare le loro diverse identità. Piuttosto, è preferibile una coalizione che unisca le sinistre, senza che nessuno debba rinnegare la propria origine, seguendo un processo che io chiamo di metamorfosi». Nella natura, spiega, il bruco si autodistrugge per diventare una crisalide e poi una farfalla. Cambia ma rimane lo stesso essere vivente. «È l'esatto contrario del concetto di fare "tabula rasa", come dice lo slogan dell'Internazionale. Io penso invece che dobbiamo andare avanti, integrando sempre il nostro passato». La paura è la nuova ideologia. Un sentimento che paralizza le coscienze, la malattia di questo secolo.
Quando è scoppiata la crisi, Morin si è staccato dal coro. «È una straordinaria opportunità per ripensare il nostro stile di vita, il momento in cui si può finalmente imparare dai propri errori. Purtroppo non sta accadendo e siamo ancora dentro al tunnel. Ricordiamoci che Adolf Hitler è arrivato al potere in modo assolutamente legale, proprio dopo una lunga crisi economica». Ci salverà, forse, l'imponderabile. Quello che neanche accademici come Edgar Morin riescono a prevedere. La piccola Atene che resiste all'impero della Persia, facendo nascere la filosofia e la democrazia. L'Urss che nel 1941 respinge i nazisti all porte di Mosca, e prelude alla fine della guerra. «È già successo, succederà ancora» confida Morin, con il tono di chi ha ancora molto da studiare. Quando si balla sull'orlo dell'abisso non c'è tempo per annoiarsi.

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